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       Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno"  | 
      
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							Intervista a Bruno Segre
							  “Bruno Segre, La Resistenza 
							della Non violenza” di Maurizio 
							Pagliassotti e Marco Vittone, Il Manifesto 26/4/ 
							2017  
							 
							 Nel suo studio settecentesco è 
							stratificato il secolo breve. Qui lavora Bruno 
							Segre, partigiano e avvocato. Novantotto anni di 
							vita spesi come in un romanzo, tra pallottole 
							bloccate da un portasigarette in metallo, alla 
							Torino di Natalia Ginzburg e di Cesare Pavese, alle 
							primissime cause in difesa degli obiettori di 
							coscienza fino alla battaglia civile per il 
							divorzio. Bruno Segre nella sua lunga vita ha 
							vissuto tutto. Partiamo da Torino, e dal suo 
							cambiamento nel corso dei decenni. Un immenso cambiamento. Ricordo 
							una città piccola e gentile, con le lampade a gas 
							nelle vie del centro, poi diventata grande e 
							caotica, che ora torna ad essere più attraente, 
							simile a quella che ho vissuto da ragazzo. Cambiano 
							la cultura, nelle città come nella morale: per 
							baciare una ragazza qui a Torino ci volevano mesi, 
							corteggiamenti serrati. Ora, non è più così: tutto è 
							divenuto più veloce. Una città cosmopolita, lo è 
							sempre stata. Cosmopolita e industriosa, che ha 
							fatto del lavoro un primato morale. Io ce l’avevo 
							con la Fiat: i benefici del lavoro operaio li hanno 
							avuti gli Agnelli, che hanno fatto ben poco per 
							accogliere i nuovi lavoratori che giungevano dal 
							Sud, e non solo, nella seconda metà del Novecento. 
							Le spese per rendere la vita civile a queste persone 
							(trasporti, ospedali, scuole, ecc.) se le accollò il 
							Comune di Torino. E gli Agnelli chi sono stati? I padroni della città. Cosa furono le leggi razziali a 
							Torino? Mi colpì l’indifferenza della 
							gente: gli ebrei in Italia erano circa quarantamila, 
							molti occupavano cattedre universitarie, alcuni 
							erano filantropi che avevano gratificato con 
							donazioni le Istituzioni cittadine. Ci fu una sorta 
							di umiliazione collettiva. Una celebre caffetteria 
							del centro espose il cartello: «Qui gli ebrei non 
							sono graditi». Molte ditte dovettero chiudere o 
							cambiare denominazione. Constatai un diffuso 
							egoismo, la gente approfittava dell’emarginazione e 
							discriminazione degli ebrei per prendere il loro 
							posto. Cosa ancor peggiore fu l’espulsione dalle 
							scuole. Quando furono attuate le normative 
							antisemite, gli studenti ebrei all’università 
							potevano terminare gli studi (io mi laureai con 
							Einaudi) ma non proseguire altri corsi universitari. 
							Viceversa gli ebrei tedeschi dovettero cessare 
							subito il corso di studi senza laurearsi. Ciò palesa 
							la sudditanza del fascismo agli ordini del nazismo. 
							I fascisti emergevano per ignoranza e stupidità. 
							Molti ebrei che non sapevano di essere tali, lo 
							scoprirono solo quando furono perseguitati. Perché entrò nella Resistenza? Sono sempre stato antifascista: 
							da ragazzo fui cacciato dall’aula scolastica perché 
							mi dichiaravo contro la guerra in Etiopia. 
							Nell’inverno del ’42 sono stato tre mesi incarcerato 
							alle Nuove perché accusato di disfattismo. Il momento dell’arresto? Nel ‘42, avevo scritto 
							l’unico articolo antirazzista apparso in Italia 
							sulla rivista torinese L’igiene e la vita, 
							subito soppressa. Nelle carceri Nuove la vita era 
							terribile, quell’inverno fu il più freddo del 
							secolo. I vetri delle celle erano rotti dai 
							bombardamenti. Fu il “generale inverno” a bloccare 
							l’avanzata dei carri armati tedeschi in territorio 
							russo. Ci trattavano come animali, alla domenica ci 
							davano pezzi di carne tratti da un sacco con la 
							forchetta. Nel 1944 mi spararono addosso. Finii in 
							via Asti, volevano sapere come avevo avuto un 
							lasciapassare tedesco. Prima però mi sporsero su una 
							finestra, e urlavano: «O parli o ti buttiamo giù». 
							Non parlai, sotto c’era gente che passeggiava. 
							Inoltre ignoravo chi, in sede clandestina, mi aveva 
							donato il documento. Cosa fu la fine della guerra? La gente ballava per le strade, 
							angloamericani e francesi vendevano le loro 
							pubblicazioni di propaganda. C’erano grandi speranze 
							di rinnovamento. Io volevo uccidere l’ex prete 
							fascista Gino Sottochiesa che aveva scritto sui 
							giornali nazifascisti articoli contro gli ebrei 
							fomentando la propaganda antisemita. Per fortuna non 
							lo trovai. S’era nascosto in un convento. Chi si poteva incontrare a 
							Torino negli anni ’50? Presentai il libro di Pimo 
							Levi, La tregua: era un personaggio solitario, 
							malinconico. Ho frequentato Carlo Levi, Cesare 
							Pavese e Leone Ginzburg: Pavese diceva che Carlo 
							Levi era un po’ esibizionista. Natalia Ginzburg era 
							mia compagna di classe al liceo Alfieri: a scuola 
							scriveva componimenti erotici. Spiccava per la sua 
							intelligenza. Perché ha iniziato a difendere 
							gli obiettori di coscienza? Conobbi Aldo Capitini alla fine anni Quaranta. Mi fece conoscere il giovane sardo, Pietro Pinna, che aveva rifiutato di impugnare le armi e io lo difesi il 31 agosto 1949 dinnanzi al Tribunale Militare di Torino. Fu un processo clamoroso, vennero giornalisti dall’estero. Da allora ho difeso centinaia di obiettori in tutti i Tribunali Militari d’Italia, perché mi convinsi che la nonviolenza è forza non debolezza. Lo stesso ho fatto con i giudizi per il divorzio. Oggi è tutto normale. La Storia ha bisogno, a volte, di punti di rottura. 
							 
							 
 
 
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