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Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno" |
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Il filo spezzato dell’Europa di Stefano Rodotà Non mi riconosco nell’Europa nata tra
il 12 e il 13 luglio. Sembra che l’Unione abbia abbandonato
l’ambizione di costruire il suo popolo. Di questo dovrebbero essere
consapevoli soprattutto quelli che hanno molto investito
nell’Europa unita come grande progetto politico, e che oggi solo
partendo da queste amare considerazioni realistiche possono
ancora coltivare un’estrema speranza di riacchiappare un filo
che appare ormai spezzato. Abbandoniamo ipocrisie e luoghi
comuni. Onorevole compromesso, né vincitori né vinti, ora è il
momento della crescita, risolta la questione greca ora vi è la
questione Bruxelles, serve più Europa politica. Come non vedere
che attraverso la questione greca si è voluto risolvere proprio
la questione Bruxelles, annunciando con inusitata durezza quale
Europa politica ci attende per quanto riguarda leadership, forze
politiche, contenuti? Sull’indubbia supremazia tedesca è inutile
insistere, se non per sottolineare quanto sia debole la tesi
dell’importante mediazione di Hollande. Che altro poteva essere
chiesto alla Grecia dopo tutto quello che le era stato imposto?
E che altro poteva avvenire dopo la riduzione della Grecia a
protettorato, come ha ben scritto Lucio Caracciolo? La verità è che questa vicenda ha
certificato anche la dissoluzione della socialdemocrazia europea.
Nel vuoto così lasciato, da tempo hanno cominciato ad insediarsi
i populismi antieuropeisti, ai quali i partiti socialisti o
socialdemocratici non sono stati capaci di contrapporre alcuna
plausibile strategia. L’ultimo spettacolo offerto dal partito
socialdemocratico tedesco, attraverso le prese di posizione del
suo vice-cancelliere e del presidente del Parlamento europeo, è
a dir poco imbarazzante. Ma l’allineamento degli altri partiti
dell’Internazionale socialista, a cominciare dalla Francia e
dall’Italia, è stato nella sostanza così totale da rendere ormai
indistinguibili i loro programmi da quelli degli schieramenti
conservatori. Con le ultime, unanimi decisioni di Bruxelles
siamo entrati palesemente nell’area del partito unico europeo. Ma questo non basta per sventare i
rischi dei populismi montanti. Se l’Unione ha deciso di
costruirsi come una organizzazione senza popolo, non vuol dire
che il popolo sia cancellato. Con due effetti. I popoli si
prendono le loro rivincite affidandosi a chi ne evoca una
autonomia insidiata da Bruxelles. E si manifestano fenomeni di
rinazionalizzazione, già ben analizzati da Wolfgang Streek, che
hanno altrettanto potenziale distruttivo. Non si può condannare
il nazionalismo della decisione di Tsypras di indire un
referendum, e poi distogliere lo sguardo da una politica tedesca
condizionata evidentemente dalle dinamiche interne a questo
Stato. Se, poi, si voleva colpire Tsypras per educare Podemos,
si tratta davvero di una strategia senza sbocco o più
precisamente di una strategia che, infiacchendo la democrazia,
favorirà una sostanziale disgregazione dell’Europa. La questione della necessaria
legittimazione dell’Unione europea attraverso meccanismi diversi
da quelli puramente economici era stata ben colta nel giugno del
1999, quando il Consiglio dell’Unione europea
decise di mettere in cantiere una Carta dei diritti
fondamentali. Si giustificò questa iniziativa sottolineando
esplicitamente che “ la tutela dei diritti fondamentali
costituisce un principio fondatore dell’Unione europea e il
presupposto indispensabile della sua legittimità”. Non è un
richiamo nostalgico. Quelle parole coglievano un punto
nevralgico per lo sviluppo dell’Unione, essendo divenuto
evidente che, per ottenere piena legittimazione da parte dei
cittadini, all’integrazione economica e monetaria doveva essere
affiancata, come passaggio ineludibile, l’integrazione
attraverso i diritti. Non è arbitrario, allora, prevedere
che il “più politica”, continuamente invocato, altro non possa
essere che l’istituzionalizzazione e la formalizzazione delle
logiche anche violente che hanno caratterizzato l’ultima fase,
con un esercizio impietoso del potere che ha prodotto esclusione
delle persone e espropriazione dei diritti. Sempre più lontani
dalle parole del Preambolo della Carta dei diritti dove si
afferma che l’Unione “pone la persona al centro della sua
azione”. E sempre più vicini ad una stretta istituzionale che,
modificando i trattati, intende costruire il “fiscal compact”
come essenziale punto di riferimento. L’Europa sociale, l’Europa del
vivere in dignità e diritti, è dunque irrimediabilmente perduta?
La domanda è legittima, e le risposte inclinano verso il
pessimismo. Ma una conclusione così sconsolata – non per i
sentimenti personali, ma per le sorti della democrazia –
dovrebbe essere misurata attraverso una analisi che parta da una
domanda diversa. Oltre al nuovo partito unico del rigore e ai
diversi populismi si scorgono forze che possano riprendere il
cammino dei diritti sociali non come rivendicazione egoistica
contro “l’idraulico polacco”, ma come possibilità concreta di
una azione statuale e sovranazionale che metta a frutto le
analisi di tanti economisti e giuristi che hanno mostrato la
forza distruttiva delle politiche finora seguite? Si consoliderà
questa consapevolezza culturale, si tradurrà in iniziative
concrete? Non dimentichiamo che la guerra fredda venne
combattuta mostrando concretamente la superiorità di una
democrazia innervata dai diritti delle persone. Non dovrebbe
essere questo il modello da seguire nel nuovo conflitto con il
totalitarismo economico?
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