Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno"

 

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TAGLIA 52: VALUTARE UNA

SCUOLA IMPOVERITA

 

Relazione del prof. Alvaro Belardinelli al Convegno Educare alla critica: quale valutazione? – Roma, Liceo “Terenzio Mamiani”, 26 novembre 2013

di Alvaro Belardinelli

 

 Negli ultimi vent’anni si è parlato sempre più insistentemente della necessità di valutare i risultati della Scuola italiana. Intendendo, con il termine “risultati”, le “competenze” raggiunte dagli studenti durante il percorso scolastico e al suo termine. Esigenza innegabilmente legittima. Non si può certo negare, infatti, l’importanza di conoscere il funzionamento della Scuola dall’interno, osservando e valutando se essa stia ottenendo il suo scopo: migliorare il livello di istruzione del Paese, combattere la dispersione scolastica, eliminare le storiche differenze culturali tra Nord e Sud, tra aree centrali e zone periferiche, tra centri cittadini e suburbi, tra città e campagna. Il dettato costituzionale parla chiaro, specialmente all’articolo 3. La Scuola è l’istituzione che meglio incarna l’esigenza di dare a tutti i cittadini le medesime opportunità, affinché essi possano esprimere al meglio le proprie potenzialità, con una ricaduta positiva su tutta la collettività. Dati a tutti i medesimi strumenti, pareggiate le differenze sociali che possono impedire di mettere a frutto le proprie capacità, è giusto premiare il merito e le capacità stesse (come prescrive l’articolo 34 della Costituzione), in modo che queste capacità e questo merito tornino utili a tutta la nazione.
Purtroppo, però, negli stessi anni in cui i nostri Governi (di ogni colore) spingevano l’acceleratore sul processo di valutazione della Scuola, non s’investiva sulla Scuola nemmeno una lira; e, dall’ingresso nell’euro, nemmeno un centesimo. Nel 2008, poi, la legge 133 del 6 agosto (anniversario di Hiroshima!) è stata devastante. Otto miliardi di euro in meno alla Scuola Statale (mentre si regalavano cifre ragguardevoli alle scuole private) si sono poi tradotti in una “riforma” (comunemente ricordata con il nome dell’allora Ministra Gelmini) che a molti è sembrata in realtà il mascheramento di una mera operazione di taglio lineare dei finanziamenti, e quindi delle ore d’insegnamento, dei laboratori, delle cattedre, dei posti di lavoro.
Negli altri Paesi civili, quando si vuole che un’istituzione funzioni meglio, se ne progetta prima una riforma complessiva, improntata a criteri relativi al funzionamento dell’istituzione stessa (e non meramente economicistici); quindi se ne discute in Parlamento, informandone l’opinione pubblica e ascoltando le reazioni di quest’ultima; infine si finanzia adeguatamente l’operazione. Dopo qualche anno, se ne valutano gli effetti, con studi statistici a campione. Infine, se necessario, si corregge il tiro, eliminando eventuali sprechi e investendo ove necessario.
In Italia si fa il contrario. Dopo decenni di offese ai Docenti e al loro lavoro, mentre i problemi reali della Scuola venivano lasciati incancrenire dai vari Governi (senza mai un intervento complessivo né una visione pedagogica d’insieme), in un giorno d’agosto, con gli Italiani sulle spiagge, è stata resa nota una legge di natura finanziaria che tagliava alla Scuola gran parte delle risorse ad essa necessarie per sopravvivere.
Cinque anni dopo ci troviamo a fare i conti con le ferite e le patologie accumulate sulle patologie e sulle ferite già esistenti prima della “riforma”.
 
Il nostro istituto (il Liceo “Terenzio “Mamiani”) è un Liceo Classico; dunque prenderemo in esame gli effetti sul Liceo Classico. Dove, paradossalmente, le cattedre più colpite sono state proprio quelle della classe di concorso A052 (“Italiano, latino, greco, storia, geografia nel Liceo Classico”). L’insegnamento dell’italiano è stato ridotto di un’ora a settimana: un’ora su cinque significa il venti per cento in meno. Un taglio drastico, che certo non può rendere i Docenti di italiano più capaci di terminare i programmi. Per facilitarli, il MIUR ha pensato bene di riformulare i programmi stessi: aumentandone i contenuti! Di fatto ora i Docenti di quinta ginnasiale dovrebbero, oltre a completare il programma consueto, insegnare ai quindicenni anche la poesia italiana delle origini, precedentemente insegnata in prima liceale.
Eppure tutti sanno che al Ginnasio giungono ormai ragazzi con gravissime lacune a livello grammaticale, ortografico, sintattico, per colmare le quali i Docenti hanno già il loro bel daffare. Che senso ha, dunque, aver diminuito il tempo da dedicare all’italiano, aumentando nel contempo la quantità di nozioni e anticipando di un anno i contenuti storico-letterari, che richiedono uno studio ben più approfondito e capacità cognitive ben più sviluppate?
Altra nota dolente: la geografia; già relegata al ruolo di cenerentola prima della cosiddetta “riforma”, e che dalla “riforma” è stata dimezzata. In realtà delle due ore settimanali, di cui prima godeva questo fondamentale insegnamento, non ne rimane che una, per di più accorpata alla storia. Di conseguenza i Docenti si scervellano per valutare gli studenti con un voto unico che tenga conto di entrambe le discipline, così diverse (benché complementari) per metodi, strumenti, campi d’indagine.
 
Quale la ratio di un’operazione simile? Modernizzare la Scuola? Facilitare il lavoro dei Docenti? Mettere gli studenti a proprio agio? Se vogliamo prenderci in giro, narriamoci pure queste favole. Altra è la realtà, ben altro lo scopo. Tagliare un’ora all’italiano e una alla geografia serve a ridurre di due ore la cattedra dei Docenti A052 (da 18 a 16 ore settimanali) e per poterne licenziare uno ogni nove. Altro che riforma!
Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Le cattedre di lettere sono frantumate, la continuità didattica non esiste più. Difatti l’aver tolto due ore alle diciotto tradizionalmente attribuite alla cattedra di lettere (obbligando nel contempo tutti i Docenti a svolgere in aula diciotto ore d’insegnamento) ha comportato l’impossibilità di realizzare cattedre unitarie. Ed ecco che i nostri quattordicenni del Ginnasio si ritrovano spesso quattro insegnanti di lettere: uno per l’italiano, uno per il latino, uno per il greco, uno per la storia/geografia (che i più volenterosi chiamano “geostoria”, facendo rivoltare nella tomba Nicola Zingarelli).
Nessuna cattedra è ormai garantita. Nessun Docente sa quale classe avrà l’anno successivo, nessuno studente conosce il nome dei propri prossimi insegnanti. Questo perché nell’organizzazione della Scuola non esiste più altro criterio guida se non il risparmio. Quasi che l’ignoranza indotta dallo sfascio della Scuola Statale fosse alla lunga meno costosa della Scuola stessa.
Ma non è finita qui. Infatti gli Insegnanti della classe di concorso A052 (“Materie letterarie, latino e greco nel Liceo Classico”) si vedono sempre più relegati ad insegnare solo greco; oppure ridotti a insegnare non più il greco, ma le altre materie letterarie, e fuori dal Liceo Classico. Infatti la Nota Ministeriale n. 272 del 14 marzo 2011, consente di insegnare le altre materie letterarie nel Ginnasio anche ai Docenti di Lettere non abilitati all’insegnamento del greco; ossia a quelli della classe A051 (“Materie letterarie e latino nei Licei e nell’Istituto Magistrale”), le cui cattedre sono state crudelmente decimate dai tagli (definiti “riforma”) della Scuola pubblica. Per edulcorare le difficoltà dei troppi soprannumerari della A051 (incrementati dalla feroce riduzione di ore in discipline importantissime come italiano e latino), il MIUR ha architettato la consueta operazione aritmetica, semplicemente spalmando sul Liceo Classico gli Insegnanti non abilitati per il Ginnasio, in concorrenza con quelli della A052, i quali sono forniti invece del titolo di studio e dell’abilitazione previsti. Ecco la “meritocrazia” dei Governi italioti!
Last but not least (per parlare come i commentatori di successo): il continuo attacco ideologico contro le lingue classiche (apostrofate spesso come “morte”, o “ostiche”, quando non “inutili”) ha comportato la loro progressiva svalutazione. Così sempre meno studenti si iscrivono al liceo classico, quelli che si iscrivono sono meno motivati (anche per i problemi di cui sopra), e sempre meno hanno gli strumenti per padroneggiare l’italiano.
 
In una situazione così compromessa si pretende di valutare studenti, Docenti e scuole. Facendolo, per di più, tramite test uguali da Bolzano a Pantelleria, dal miglior liceo di Milano al più modesto istituto professionale di Canicattì. Sfugge, francamente, il criterio di un’operazione di tal fatta. Sfugge anche il motivo per cui i test dell’Invalsi riguardino solo le competenze relative all’italiano, ma non quelle del latino, del greco, della storia e della geografia.
Della validità dei test parleranno altri relatori nel corso di questo convegno, ben più esperti di me in materia e con opinioni diverse sull’argomento. Io mi limiterò a proporre ancora spunti di riflessione sulla condizione dei Licei Classici, fino a cinque anni fa fiore all’occhiello del sistema scolastico italiano.
Il nostro Liceo “Mamiani” ancora resiste, sia perché gode di una lunga tradizione (essendo uno dei Licei storici della Capitale), sia per opera di un Collegio dei Docenti cosciente e combattivo, sia per aver sempre avuto Dirigenti intelligenti e capaci. Purtroppo, però, le notizie che giungono ai terminali sindacali di base dai Licei di provincia (spesso anche molto prestigiosi) sono scoraggianti. Complici, molto spesso, purtroppo, molti degli stessi Docenti, non coscienti del proprio ruolo, della propria funzione, dei propri diritti. Troppi Insegnanti si lasciano calpestare da alcuni “presidi-manager” per timore e perché non sindacalizzati. Inoltre i sindacati “maggiormente rappresentativi” da troppi decenni rappresentano soltanto sé stessi e la controparte governativa. Gli unici sindacati che difendano chi lo merita sono l’Unicobas e pochi altri sindacati di base, ai quali, per accordi sindacali concertati dai sindacati maggiori, sono vietate persino le assemblee in orario di servizio.
 
La libertà di insegnamento, un tempo cardine del sistema scolastico, sta per esser cancellata da una pseudodidattica (della quale traboccano i libri di testo) finalizzata al superamento delle prove Invalsi.
I Docenti si sentono intimiditi e condizionati (quando non ricattati) dall’opinione dei genitori e dei Dirigenti, sempre più aggressivi nei loro confronti negli organi collegiali. Ciò non avviene solo nel profondo Sud, tra infrastrutture fatiscenti, difficoltà logistiche inimmaginabili, camorristi e mafiosi nei comitati di genitori e nei consigli di classe; avviene anche nel Nord più opulento, dove la cultura non viene considerata nemmeno più uno status symbol, e dove conta semmai il semplice conseguimento del “pezzo di carta”.
Per i Docenti non c’è più neppure la libertà di valutare le verifiche scritte, perché in molti casi le correzioni avvengono in comune, con griglie di valutazione discutibili (quando non assurde), che determinano, tra l’altro, polemiche, perdite di tempo e situazioni caotiche per stabilire i calendari delle riunioni. Agli Insegnanti viene proibito di usare voti intermedi, che permetterebbero di sfumare i giudizi e di evitare grossolane semplificazioni.
Proibito ai Professori assegnare voti più bassi del tre, persino quando l’allievo consegna una verifica in bianco. In alcuni noti Licei milanesi è vietato dar voti inferiori al quattro, e si pratica lo “scambismo” delle verifiche: appunto per far apparire le correzioni più “oggettive”, i Docenti si scambiano vicendevolmente gli elaborati per correggerli e valutarli. Come se rinunciare a valutare personalmente i risultati del proprio lavoro servisse a renderlo più affidabile. Una pratica che è semmai il frutto più maturo dell’insicurezza indotta nei Docenti italiani da un trentennio di denigrazione e calunnie nei loro confronti.
 
In quasi tutti i Licei d’Italia l’anno scolastico non è più scandito in due quadrimestri, ma in un trimestre e in un periodo di cinque mesi (definito “pentamestre”, con un ennesimo, orrido neologismo scolastichese). In alcuni casi la finalità è didattica; in altri, serve solo a far contenta la cosiddetta “utenza”, la quale, specie se benestante, può così andar tranquilla sulla neve durante le vacanze natalizie, senza preoccuparsi di far studiare i pargoli prima del rientro a scuola. Invero molti studenti, dopo lo scrutinio del 20 dicembre, non aprono libro fino alla fine di gennaio. Decisioni del genere passano però nei Collegi dei Docenti all’unanimità o quasi, perché l’impressione comune è che sia già tutto deciso, e che sia inutile (quando non rischioso) opporsi.
In moltissimi Licei è stata introdotta la settimana corta, semplicemente perché voluta da Dirigenti e comitati di genitori (dai quali provengono quei denari che lo Stato preferisce regalare ai diplomifici privati). In questo modo gli studenti tornano a casa molto tardi nel pomeriggio e si ritrovano sei o sette materie da studiare per il giorno successivo. Ma tanto, si sa, lo studio è ormai un optional.
 
I Docenti non sono più liberi di scegliere i libri di testo, spesso uguali per tutte le classi e decisi nelle riunioni di “dipartimento”, secondo criteri spesso poco trasparenti. Si studia poco persino Dante: in molte classi non ne viene adottata alcuna edizione, tanto che alcune classi liceali leggono al massimo quattro canti della Divina Commedia in un anno. Per non superare il tetto di spesa stabilito dal MIUR, non si adottano più antologie latine né greche, né libri di versioni. I genitori però di questo non sembrano preoccupati, rivolgendo semmai le proprie attenzioni (soprattutto nei Licei del Nord) verso le vacanze-studio dei figli in Inghilterra (o alle Isole Hawaii!), o verso i loro cellulari ultimo grido, o verso costose psicoterapie per i propri pupilli.
Pur di non perdere iscritti, si permette comunque ai medesimi genitori di prendere la parola persino nei Collegi dei Docenti: tanta e tale è la paura dell’accorpamento con altre scuole, il quale scatta inesorabile quando il numero degli alunni scende sotto il fatidico numero di seicento.
 
I Docenti che non si piegano e non si uniformano all’ideologia della scuola-azienda, se non è possibile farli fuori in altro modo (perché troppo esperti o con troppo punteggio in graduatoria), si vedono assegnare le cattedre più spezzettate; oppure viene loro impedito di insegnare la disciplina che più amano, anche a costo di danneggiare gli studenti.
 
Ebbene, dopo che la Scuola Statale italiana ha dovuto subire tutto questo, la si vuole valutare. E valutarla non a partire dai Ministri, dai sottosegretari, dalla burocrazia, dagli edifici fatiscenti, dai finanziamenti negati e da tutto quello che la strozza; ma dagli studenti e dai Docenti.
“A pensar male degli altri si fa peccato, ma spesso ci si indovina” diceva Giulio Andreotti. Forse fa peccato anche chi pensa che lo sfascio della Scuola sia stato progettato e portato avanti con lucida e paziente determinazione da quella medesima classe politica e dirigenziale che ha già sfasciato e privatizzato mezza Italia, e che ora vuol privatizzare anche la Scuola istituita dalla Costituzione. Fa peccato; ma probabilmente indovina.

 

 


 

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