Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno"

 

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE DEL LIBERO PENSIERO "GIORDANO BRUNO" 

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«Credere di credere». Genesi e significato di una conversione debole

 

Nel 1996 con il libro Credere di credere Vattimo ufficializzava la sua svolta religiosa. Ma perché e con quale esito il teorico di una filosofia nemica dichiarata della Verità e degli assoluti ritorna al cristianesimo? Se ne discute in un dibattito ospitato dal Giornale di filosofia della religione (Aifr.it). Pubblichiamo qui l’intervento di Enrico Galavotti.

 

 

 

1. Con il lungo articolo «Credere di credere». Genesi e significato di una conversione debole (che riprende i contenuti della sua tesi di laurea), Michele Turrisi ha avviato un dibattito di alto livello sulla conversione — ma sarebbe meglio dire “riconversione” — religiosa di Vattimo al cristianesimo. (Uso la parola “cristianesimo” sensu lato, poiché è difficile pensare che una posizione come la sua possa essere accettata nell’ambito della Chiesa romana; al massimo, se vogliamo, nell’ambito di quella protestante la quale, in nome del “libero esame”, può autorizzare interpretazioni eterogenee del Nuovo Testamento, per quanto persino una qualunque confessione ultra-liberale non possa permettersi il lusso di accettare l'idea che una fede possa essere coerentemente vissuta senza una comunità di riferimento. Sono comunque note le simpatie di Vattimo per la chiesa valdese e, se vogliamo, anche quelle dello stesso Turrisi). “Riconversione” in quanto il filosofo torinese una quindicina d'anni fa ebbe un improvviso ripensamento del suo itinerario intellettuale (laico-esistenzialistico e di militanza nella sinistra), approdando a una soluzione di tipo mistico, ancorché non-confessionale, per riempire il vuoto di valori causato dal fallimento di quegli ideali del socialismo europeo in cui egli, a modo suo, si riconosceva. Da allora la questione religiosa è diventata una delle sue preferite, benché non abbia mai trascurato l’impegno politico (dal 2009 è parlamentare europeo nell’IdV di Di Pietro).

Conoscendo il valore laicista del mio sito (homolaicus.com) Turrisi mi ha chiesto di produrre una riflessione sull’argomento in oggetto, ben sapendo che non avrei potuto condividere pienamente le sue idee che, per quanto “progressiste” possano essere in ambito religioso (specie in rapporto al cattolicesimo-romano, che con gli ultimi due pontefici ha raggiunto vertici di notevole conservatorismo), restano pur sempre relative a un mondo che il sottoscritto non può considerare alternativo a uno di tipo laico. Di ciò comunque gli rendo merito, poiché se negli anni Sessanta e Settanta un confronto del genere era possibile grazie alle sollecitazioni teorico-pratiche poste dal socialismo (utopico o scientifico che fosse), oggi, pur in assenza di riferimenti a questa ideologia, i credenti avvertono comunque la necessità di confrontarsi con posizioni diverse dalla loro, evitando di pensare che la “partita” tra le due Weltanschauungen sia definitivamente chiusa con il crollo del muro di Berlino. È indubbio infatti che il socialismo, pur essendo fallito come sistema amministrato dall’alto, ha contribuito sul piano culturale a sviluppare un’idea di laicismo che inevitabilmente ha condizionato non solo la cultura borghese del nostro tempo ma anche quella religiosa.

Lo stesso Vattimo ha avvertito l’esigenza di militare nella sinistra (anche da cattolico, nel periodo giovanile), rendendosi conto che il proprio esistenzialismo non avrebbe potuto trovare nella religione le risposte politiche che cercava. In tal senso ci si può chiedere, visto che in area socialcomunista politica e laicità non dovrebbero marciare separate, se il suo ritorno alla fede non possa essere visto come una conseguenza dell’incapacità che hanno molti "intellettuali di sinistra" di tenere uniti i due elementi suddetti, e se addirittura l’intenzione di attenersi alla “sola laicità” non comporti, prima o poi, il rischio di una involuzione verso posizioni religiose. Ciò senza nulla togliere al coraggio che un intellettuale deve avere di rimettere continuamente in gioco le proprie certezze, come ha giustamente asserito Costanzo Preve. Parlo di “involuzione” ovviamente a prescindere da tutto: atteggiamenti personali, scelte di valore, posizioni politiche… Mille volte i laici hanno sostenuto che esistono credenti migliori delle religioni cui appartengono e religioni migliori dei propri credenti; questo tuttavia non toglie che la religione in sé resti per il sottoscritto una risposta precaria, se non illusoria o comunque molto limitata, alle domande di senso del nostro tempo. Cosa che d’altra parte sosteneva lo stesso teologo Sergio Quinzio — forse il trait-d’union tra Vattimo e Turrisi — il quale ovviamente vedeva la limitatezza non nella fede in sé ma nella sua espressione istituzionale.

Si badi però che se si volesse circoscrivere l’ultima ontologia di Vattimo alla mera questione religiosa si rischierebbe di compiere un grossolano errore. Egli non ha mai rinnegato il suo background marxista, e anzi gli ultimi sviluppi del suo pensiero paiono orientati a recuperare i temi fondamentali del filosofo di Treviri, previa debita epurazione degli elementi più dogmatici della sua ideologia. È sufficiente leggersi Ecce Comu. Come si ri-diventa ciò che si era (Fazi 2007), in cui egli propone una sorta di comunismo libertario, all’insegna di un progetto di “sovversivismo democratico”. Nel più recente Addio alla verità (Meltemi 2009), filosofia e politica si ricongiungono per costruire un’idea di verità nel confronto sociale e interculturale. 

 

2. Detto questo, non si vogliono qui ripercorrere tutti i passaggi della "conversione" di Vattimo (l’ha già fatto Turrisi con molta chiarezza) ma semplicemente approfittare del testo di quest’ultimo per sviluppare delle osservazioni di carattere più generale, riguardanti non solo la filosofia ma anche la politica. Turrisi plaude alla “conversione” di Vattimo, poiché la giudica interessante sul piano della “filosofia religiosa”. Ma se guardiamo i temi religiosi trattati da questo “pensiero debole”, essi rientrano tutti nella categoria dell’esistenzialismo religioso, sebbene talune categorie (per es. quella di kenosis) vengano prese dalla teologia cristiana vera e propria e ripensate in chiave laica. Se andiamo a leggerci le opere di L. Chestov, N. Berdjaev, S. Kierkegaard, K. Barth, H.-G. Gadamer, L. Pareyson (quest’ultimi due maestri riconosciuti dallo stesso Vattimo), si ritrovano argomenti analoghi, con la sola differenza che Vattimo filtra tutto attraverso le sue interpretazioni di Nietzsche e di Heidegger, che lo portano a essere più un “ontologista” che un “esistenzialista”. In tal senso la “conversione” può essere ritenuta come un passo indietro sul piano teoretico, anche se può apparire come un passo avanti sul piano pratico — che è poi quello che a Turrisi è piaciuto di più — essendo quello del travaglio interiore, della sofferenza psicologica, del mettersi a nudo autobiografico.

Vattimo tuttavia vuole restare un filosofo illuminato euro-occidentale, per il quale una qualunque riscoperta della fede non può e non vuole andare oltre le acquisizioni laiciste maturate nell’ultimo mezzo millennio (anzi se consideriamo il contributo dato dalla Scolastica alla riscoperta dell’aristotelismo, dovremmo dire nell’ultimo millennio, poiché se è vero che il protestantesimo — sulla scia di M. Weber — può essere considerato “organico” al capitalismo, è anche vero che è stato il cattolicesimo-romano a permettere il sorgere della mentalità borghese in ambito comunale). È lontanissima da lui l’idea di vivere un’esperienza della fede secondo i criteri di una qualunque chiesa istituzionale. Se davvero il discorso religioso gli interessasse sul piano pratico, se davvero avesse voluto fare studi teologici approfonditi, cercando una modalità ecclesiale più coerente all’ideale evangelico, non sarebbe tornato a parlare di fede in senso cattolico o in senso protestante, ma ne avrebbe parlato in senso ortodosso, in quanto l’esperienza di origine greca o slava della fede resta infinitamente superiore, sul piano spirituale (ontoteologico), rispetto a qualunque altra esperienza cristiana. L’attesta la pervicace resistenza che gli ortodossi hanno saputo dimostrare di fronte ai condizionamenti islamici, stalinisti e cattolico-romani.

 

3. Quindi più che parlare di Vattimo sarebbe meglio parlare di Turrisi, vale a dire della sua operazione di recupero che forse risente di qualche esagerazione rispetto a quella dello stesso Vattimo (nel senso che Turrisi appare essere molto più “religioso” di lui, uno cioè che davvero pensa di poter dare un contributo alla valorizzazione dell’esistente partendo da presupposti religiosi). Per Vattimo si è trattato invece assai probabilmente di una delle tante riflessioni esistenziali ch’egli ha fatto nella sua vita, in cui la contraddittorietà tra una tesi e l’altra del suo notevole corpus filosofico non viene considerata un limite bensì un valore — come d’altra parte è giusto che sia per un filosofo che ha fatto dell’ermeneutica la sua ragion d’essere, cioè della continua ricerca una battaglia contro tutti i dogmi, laici e religiosi.

Non a caso la lettura che Turrisi ha prodotto di Vattimo è subito piaciuta a chi, come lui, crede ancora che la fede abbia qualcosa da spendere in questa valle di lacrime. Certo, se si guarda all’incredibile revival della chiesa ortodossa nei paesi ex-comunisti (in Russia persino le autorità governative si atteggiano a credenti), vien da pensare che forse anche nei paesi di democrazia formale come i nostri, dove i valori del mercato ci stanno portando a una crescente alienazione, la fede religiosa possa tornare a avere il seguito di un tempo. Ma davvero è possibile pensare che la Chiesa romana, abituata da almeno un millennio a gestire il potere politico e economico, vittima qual è di continui scandali (che di recente l’hanno colpita anche negli aspetti della sfera sessuale) possa assomigliare anche solo lontanamente a una qualunque chiesa ortodossa, che in virtù della diarchia politica non ha mai gestito alcun potere e che ha potuto rinascere grazie esclusivamente alla propria spiritualità? Oppure quella di Turrisi vuole essere un’operazione di largo respiro, da giovane intellettuale filo-protestante che cerca un dialogo con gli uomini e le donne “di buona volontà” sui temi forti dell’umano vivere e credere? Se è così sarebbe meglio aprire subito un dibattito, tra credenti e non, sulla principale emergenza del nostro Paese — quella “morale” — dove la corruzione sembra porsi “a sistema” e dove quindi non può che essere ben accolto un contributo umanamente significativo come il suo. Un dibattito del genere dovrebbe però avere come presupposto l’idea che l’etica sociale non è in crisi perché sempre meno religiosa. L’etica, sia essa laica o religiosa, è sempre un riflesso della società, ed è sui fondamenti di quest’ultima che sarebbe necessario discutere. Anche perché se oggi non siamo così schematici da ritenere che la sovrastruttura sia un mero rispecchiamento della struttura, è anche vero che se i cittadini, laici e credenti, non decidono insieme quali basi porre per la società dei prossimi decenni, non sarà possibile trovare dei valori comuni da far valere per mutare il sistema. I credenti infatti in quanto “credenti” sentono di avere il compito di riformare le loro chiese di appartenenza; ma in quanto “cittadini” devono trovare con credenti diversi da loro e con i non-credenti un terreno comune in virtù del quale sia possibile debellare la principale malattia che ha inaugurato il XXI secolo: la corruzione; corruzione di fronte alla quale non può bastare né una riforma di tipo religioso né una di tipo laico, in quanto è proprio il concetto di democrazia che va ripensato.

Oggi dovremmo sviluppare una democrazia più diretta che delegata, localmente autogestita, dove la concessione dei poteri vada considerata temporanea e limitata a un obiettivo specifico, dove gli eletti debbano rendere periodicamente conto del loro operato agli elettori, dove tutto sia sottoposto al controllo dei cittadini, dagli aspetti politici a quelli sociali e culturali, dove i bisogni siano il criterio per formulare qualunque legge (maggiori i bisogni, più alti i diritti), dove si possa riscoprire la memoria del valore d’uso d’ogni cosa (che non necessariamente coincide col suo valore di scambio) e dove il bisogno principale, la libertà di coscienza, sia la legge suprema di ogni decisione, dove nessuna decisione venga considerata irrevocabile (poiché non è l’uomo a essere fatto per il “sabato” ma il contrario), dove nessuno si consideri insostituibile o infallibile (neppure un organo collettivo, poiché nessun ruolo o funzione può essere eterno o ereditario), dove far valere il classico principio: “a ognuno secondo il bisogno, da ognuno secondo le capacità”, dove la necessità di tutelare la natura sia parte costitutiva della riproduzione della specie umana, e questi son soltanto dei principi elementari, dei “minima moralia” direbbe Adorno.

Sapranno i laici come Vattimo e i credenti come Turrisi trovare un punto d’accordo intorno a essi per sviluppare poi quelle che i politici chiamano le “larghe intese”?

 

Enrico Galavotti

 

[da http://www.aifr.it/pagine/notizie/034.html]



 

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