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Craxi e la lottizzazione della Rai

A quanti sono ansiosi di riproporre come modello l'ex leader del PSI si potrebbe suggerire di intitolargli non una strada ma un vicolo cieco, come quello a cui ci ha portato la “modernizzazione” della politica e della società di cui è stato fautore...

Fernando Cancedda

Io non ero tra quelli che gli gettarono addosso le monetine in quella famosa serata del 30 aprile '93, ma come giornalista del tg 2 sono stato testimone diretto del suo modo spiccio di concepire (e attuare) l'azione politica come occupazione del potere.

Sarà pur vero, come ha scritto su Repubblica Mario Pirani, che va ricordata a suo merito “l'intuizione storica di una riconquista di uno spazio autonomo del PSI”, ma è indubbio che nel frattempo si provvedeva a distruggere quel poco di autonomia dalla politica e dai partiti che ancora restava alle istituzioni e alla società civile. Ed è proprio su questo terreno, molto più che sulle idee e sui programmi, che Bettino Craxi avviò con profitto una brillante competizione con la democrazia cristiana, obbligandola ad una lottizzazione del potere in tutti i settori chiave dell'amministrazione e dell'intervento pubblico. Aggiungo per correttezza che a questa lottizzazione non rimase del tutto estranea neppure l'opposizione. Dunque, almeno sotto questo profilo, il modello Craxi può essere considerato ancora in vigore, esasperato dal conflitto di interessi di Berlusconi! e coperto dal suo regime mediatico. Nessun bisogno di riproporlo.

La RAI, azienda in cui ho lavorato per trent'anni, è sempre stata, come è noto, il termometro più sensibile di questa occupazione del potere. E' storia nota, a cui vorrei aggiungere ora qualche ricordo personale. Nel 1976 un successo elettorale del partito di Berlinguer aveva favorito la riforma del servizio pubblico radiotelevisivo, in senso pluralistico e non ancora lottizzatorio. Così almeno ci illudevamo, visto che dopo vent'anni di monopolio dc la seconda testata per importanza, il neonato tg 2, veniva affidata ad un professionista indipendente e di prestigio come Andrea Barbato.

Per più di un anno, mentre il tg1 raccoglieva l'eredità paludata e governativa del vecchio telegiornale, al tg 2 di Andrea Barbato – dove erano confluiti quasi tutti i redattori del più spregiudicato tv7, ed io tra loro – venne consentito di sorprendere i telespettatori con le impertinenti cronache da Montecitorio di Emanuele Rocco o le graffianti inchieste dei primi numeri di tg2 Dossier. Ma durò poco. Bettino Craxi, trascorso un periodo di ambientamento nella carica di segretario del PSI, provvide subito a reclamare, tramite il luogotenente Ugo Intini, la sua fetta di torta in quella che era ancora l'unica informazione politica data in televisione.

Le pressioni su Barbato si fecero sempre più insistenti, come il comitato di redazione, di cui allora facevo parte con Tito Cortese ed Ettore Masina, ebbe modo di verificare. E quando le pressioni si rivelarono insufficienti, si provvide a sostituire Barbato con il più mite Ugo Zatterin. Da allora, si era alla fine degli anni '70, ad ogni cambio di direzione seguiva regolarmente un rafforzamento della “militarizzazione” interna con le nomine a cascata di capi redattori e capi servizio in base a criteri di spartizione partitica, mentre i pochi indipendenti che rifiutavano di aggregarsi o comunque di obbedire alla “linea” venivano inesorabilmente emarginati. A questa militarizzazione, che raggiunse l'acme con la vicedirezione di Giuliana del Bufalo e la sorprendente carriera di qualche improvvisato ma “fedelissimo&rdqu! o; giornalista, la parentesi di tangentopoli e di mani pulite concesse solo una pausa. Poi quella che era rimasta per quindici anni la testata di Craxi passò sotto la protezione del suo più forte e abile amico di un tempo.

Ho voluto rendere questa testimonianza perché sono convinto che l'occupazione della RAI da parte dei partiti, compreso il “piatto di lenticchie” offerto alla sinistra, abbia rappresentato, nella geografia del potere in Italia, soltanto la punta di un iceberg. E, più in generale, l'altra faccia della cosiddetta “modernizzazione”, forse anche di quello che oggi, con termine altrettanto generico, si chiama “riformismo”.

Concludo ricordando le amare riflessioni svolte all'epoca da Pietro Scoppola, opportunamente citate da Guido Crainz su Repubblica del 3 gennaio scorso: “Partiti sempre più uguali si contendono il consenso degli elettori con una forte crescita del voto di scambio, con un ulteriore incentivo alla corruzione politica e all'uso del potere ai fini della conquista del consenso”.

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