Boicottaggio della R.U. 486
									Ma il 
									Ministro della Salute non ci sta
									di Stefania 
									Friggeri
									
									
									
									
									
									
									
									
									Scoppiata l’epidemia, non 
									essendo stato approntato un sito 
									istituzionale per dare informazioni, le 
									donne che intendevano ricorrere all’aborto 
									non sapevano come muoversi, quali ospedali 
									erano ancora aperti per loro, come fare per 
									accedervi e così via; e all’incertezza si 
									aggiungeva il rischio di uscire di casa e di 
									recarsi in ospedale,  ma soprattutto il 
									timore di superare le sette settimane. 
									
									È cominciata così 
									la maratona telefonica per riuscire a 
									prendere un appuntamento presso un ospedale 
									dove all’aborto era riconosciuto un 
									carattere di urgenza, dal momento che la 
									legge 194 prevede un termine temporale 
									preciso per fare l’intervento (ma sono stati 
									segnalati casi di donne che, esasperate per 
									la mancanza o vaghezza delle risposte 
									ricevute, hanno minacciato di denunciare ai 
									carabinieri il boicottaggio di cui si 
									sentivano vittime).
									Nella situazione 
									sanitaria causata dal coronavirus,  
									drammatica, difficile e complessa, i 
									cattolici integralisti hanno colto 
									l’opportunità per intervenire e limitare 
									ulteriormente l’accesso all’interruzione 
									volontaria di gravidanza, I.V.G. : in tempo 
									di pandemia, quando è consigliabile starsene 
									a casa e non frequentare l’ospedale,  
									la giunta regionale dell’Umbria, guidata 
									dalla presidente Donatella Tesei, ha emesso 
									una delibera che prevede il ricovero 
									ospedaliero di tre giorni per le donne che 
									ricorrono all’aborto farmacologico. 
									
									La norma, che ha 
									annullato la delibera del 2018 con cui la 
									giunta precedente di centrosinistra 
									introduceva la possibilità di abortire con 
									la R.U. 486 in day hospital e con terapia 
									domiciliare,  ha indotto il ministro 
									della Salute Speranza a chiedere al 
									Consiglio Superiore della Salute, C.S.S., di 
									esprimersi sulla delibera dell’Umbria «al 
									fine di favorire, ove possibile, il ricorso 
									all’IVG con metodo farmacologico, in regime 
									di day hospital ed ambulatoriale, come in 
									uso nella gran parte degli altri paesi 
									europei»…. e di «prevedere l’aggiornamento 
									delle Linee di Indirizzo dell’ IVG […] 
									«tenendo anche in considerazione la 
									possibilità di monitoraggio da remoto 
									attraverso dispositivi tecnologici di 
									telemedicina». 
									Il C.S.S. si è già 
									pronunciato tre volte sulla legge 194 (2004, 
									2005, 2010) e sempre ha interpretato in modo 
									restrittivo la legge indicando l’opportunità 
									di un ricovero ospedaliero di tre giorni 
									anche nel caso dell’aborto coi farmaci, 
									considerandolo non meno rischioso di quello 
									chirurgico,  tanto da ritenere impensabile 
									che la donna potesse affrontarlo da sola 
									fuori dall’ospedale.
									Alle regioni però la 
									legge ha riconosciuto la possibilità di 
									organizzarsi in autonomia, senza rispettare 
									le Linee guida del C.S.S. che sono state, e 
									tuttora sono, molto rigide, anche se i dati 
									del ministero della Sanità sull’aborto 
									farmacologico riferiscono che non c’è stata 
									alcuna complicazione nel 97% circa dei casi 
									e che l’80% delle donne ha aggirato la 
									ospedalizzazione firmando le dimissioni 
									volontarie dopo aver assunto la RU486. 
									
									Ma in Italia sono 
									poche le strutture che prevedono la 
									possibilità di scegliere tra aborto 
									chirurgico ed aborto farmacologico, anche 
									perché gli ospedali che hanno adottato 
									questo tipo di intervento sono presenti 
									solamente in Emilia-Romagna, Lombardia, 
									Lazio e Toscana, non più nell’Umbria a guida 
									leghista. Molteplici ed alte si sono alzate 
									le voci di associazioni, di forze politiche 
									e sindacali, di singole personalità che 
									hanno denunciato l’anacronismo e la crudeltà 
									della delibera votata dalla giunta 
									dell’Umbria (così Saviano: «una decisione 
									gravissima, irrazionale ed irrispettosa»), e 
									la Società Ospedaliera di Ginecologia ed 
									Ostetricia è intervenuta raccomandando la 
									deospedalizzazione dell’aborto farmaceutico 
									al fine di tutelare la salute della donna e 
									di ridurre il sovraccarico negli ospedali. 
									Per difendersi dall’accusa di avere firmato 
									una delibera oscurantista, la presidente 
									Tesei nella lettera che ha inviato al 
									ministro Speranza ha scritto: «L’approccio 
									che va seguito deve essere scevro da 
									condizionamenti ideologici e deve avere come 
									pilastri la libertà di scelta e la tutela 
									della salute della donna».
									Parole 
									condivisibili; ma come credere che 
									l’ideologia non abbia influenzato la giunta 
									quando, in tempo di Covid,  la delibera 
									della Regione Umbria prevede una 
									ospedalizzazione forzosa di almeno tre 
									giorni (72 ore)? con un rischio più alto  
									per la donna che abortisce coi farmaci 
									rispetto a quella che ricorre all’aborto 
									chirurgico, che richiede generalmente due 
									ricoveri in day hospital, uno per gli esami 
									e il colloquio, l’altro per l’intervento?.  
									
									Ma dietro quella 
									norma non c’è solo la volontà di cancellare 
									il diritto della donna alla 
									autodeterminazione e alla libertà di scelta 
									perché il rischio che comporta per le donne, 
									non solo di ammalarsi gravemente ma anche di 
									morire, tradisce le 
									pulsioni che animano nel profondo gli 
									integralisti cattolici, come al tempo dei 
									roghi per gli eretici e le streghe: allora 
									l’Altro veniva cancellato dalla comunità, 
									come si doveva procedere nei confronti di 
									chi era riconosciuto, dopo un processo,  
									nemico del Vero, del Giusto, dell’Assoluto, 
									oggi Pillon e compagni impugnano la legge 
									per introdursi nella vita dell’Altro,  
									per punirlo quanto più possono, per piegarlo 
									moralmente nella sofferenza.