Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno"

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ARTICOLI

LA RIVOLUZIONARIA FILOSOFIA DI GIORDANO BRUNO E LA SUA ATTUALITA’

 

Libero Pensiero 09/2009

 

Giordano Bruno, 406 anni fa, dopo lunghi anni di carcere e terribili sofferenze (fu sottoposto anche a tortura almeno due volte: a maggio del 1597 e a settembre del 1599), veniva condotto dal carcere del Sant’Uffizio a piazza Campo dei Fiori per essere bruciato vivo, a piedi scalzi e con la lingua stretta nella mordacchia per soffocarne fino all’ultimo la parola. Anche i suoi libri venivano bruciati sulla scalinata di S. Pietro. Era giovedì grasso del 17 febbraio 1600, e la Chiesa cattolica, che aveva voluto quella morte atroce, celebrava in quell’anno il suo giubileo. Il santo tribunale dell’Inquisizione romana, presieduto personalmente dal papa, aveva condannato Giordano Bruno al rogo perché “eretico impenitente, pertinace”.

Sono gli anni in cui Santa Romana Chiesa sferrava uno dei più pesanti attacchi repressivi contro quanti osassero pensare con la propria testa e rivendicassero il diritto di scegliere visioni del mondo, comportamenti di vita non omogenei e funzionali a quell’unica verità, che essa autoproclamava assoluta ed eterna.

Era inevitabile che Bruno si scontrasse con il potere dominante perché aveva il “vizio di pensare”. E pensando si opponeva a tutto quanto fosse già dogmaticamente predefinito.

È stoltissimo credere per abitudine, è assurdo prendere per buona una tesi perché un gran numero di persone la giudica vera” era solito ripetere il nostro filosofo affermando con forza la grande prospettiva dialogica della relatività delle conclusioni, desacralizzando tutto e tutti “a lume di raggione”. Con entusiasmo egli accoglie l’eliocentrismo, la portata rivoluzionaria della nuova cosmologia, assumendosi il compito di “risvegliare i dormienti”. Giordano Bruno, così, costruisce sull’eliocentrismo gli sviluppi ontologici, gnoseologici ed etici della sua filosofia, al fine di rompere definitivamente le muraglie che chiudevano il mondo e l’umanità nella finitezza, affinché si cerchi il vero e ci si liberi delle chimere fideistiche.

Giordano Bruno comprende che la scoperta di Copernico va ben oltre le questioni cosmologiche, e pertanto ne coglie la portata rivoluzionaria per liberare la ragione umana da una situazione di perenne inferiorità (la sua bassa condizione), cui la concezione della divisione tra un cielo superiore e una terra inferiore l’aveva relegata.

Gli individui, fiduciosi nella ragione, nei sentimenti e nelle possibilità e capacità della loro azione, - sostiene Bruno – non più “ciechi”, non più “muti”, non più “zoppi”, finalmente non devono temere più di “eplicar gl’intricati sentimenti (…) far quel progresso col spirto”, che finalmente da soli possono compiere.

Bruno auspica, infatti, che ognuno possa trovare nella ragione la luce intellettuale, mettendo in discussione schemi mentali e rapporti di potere consolidati, perché (ecco la mirabile rivoluzione), se la terra gira, “con la terra si muovono tutte le cose che in terra stanno”.

Non è casuale, infatti, che la Chiesa si scagli con estrema brutalità contro la diffusione del copernicanesimo. Togliere il punto fermo rappresentato dalla Terra non è cosa da poco: tutta la storia sacra è stata edificata sulla Terra, e Bruno la mette in crisi con la sua filosofia. Con l’infrangersi delle muraglie celesti, Bruno sospetta l’infinità dell’universo! È la natura l’infinito, perché “materia Madre che partorisce all’infinito le sue forme”. Bruno, nel “De la causa principio et uno” ribalta il rapporto materia-forma della concezione aristotelico-scolastica, e fa della materia madre, unica totale nel suo divenire infinito, l’Essere Perfetto, Dio. Bruno spazza via, quindi, il creazionismo esterno alla natura, ma anche i finalismi antropomorfici ed antropocentrici, che su quello si erano stratificati. Riduce la religione del Dio-uomo-rivelato a strumento di oppressione politico-sociale. “La fede si richiede per l’istituzione di rozzi popoli che denno (devono, ndr.) esser governati – scrive Bruno nell’epistola proemiale del ‘De l’infinito universo et mondi’ – e la dimostrazione per gli contemplativi (filosofi, ndr.) che sanno governare sé et altri”.

Con Bruno, l’Essere. La Natura, la Vita è infinita trasformazione nel suo particolare caratterizzarsi, nel suo Infinito divenire biologico e storico. Penetrare, afferrare questa unitarietà dei meccanismi della natura era il grandioso sforzo della cultura rinascimentale, esercitando la “magia naturale”: Come viene assunto da filosofi e tra filosofi” – scrive Bruno – mago significa uomo sapiente, dotato di capacità operative (De Magia). Questa magia era la “scienza” di allora, cui dobbiamo riconoscere il merito di aver aperto la prospettiva della conoscenza della realtà. Se la natura è immanente totalità del suo unico e medesimo essere, non più misteriosa inindagabile emanazione di esterno miracolo, non si deve ricorrere a forze esterne ed estranee ad essa per spiegarla. Finalmente sul piano logico è possibile capirne principi e leggi avendo fiducia nelle sole capacità e possibilità della ragione (come poi insegnerà Immanuel Kant fondando l’episteme della scienza).

La filosofia ritrova con Bruno il suo fondamentale ruolo di disvelamento, di acquisizione scientifica, nella piena consapevolezza del ruolo storico che ciascun filosofo, ciascun intellettuale ha nel contribuire a migliorare sé e la società. È il ruolo che Bruno da a se stesso, facendo coincidere filosofia e vita.

Bruno crede in una società umana da realizzare su basi filosofico-naturalistiche, riconciliando l’uomo e il suo pensiero con la realtà del cosmo natura, dove gli uomini saranno liberi se avranno saputo sgombrare le menti dalla “fede asinina” per esercitare responsabilmente la propria individuale e civile dimensione etica.

Questa dimensione etica, è la “religione civile” di Giordano Bruno, ed emerge con tutta chiarezza nello “Spaccio della bestia trionfante” e nella “Cabala del cavallo pegaseo”. Qui Bruno, con estrema lucidità spiega le ragioni della decadenza in cui l’Europa, insanguinata dalle guerre di religione, è precipitata, e definisce contestualmente la sua riforma.

È nello Spaccio e nella Cabala che i frutti della pedanteria e dell’asinità imperversanti, vengono attribuiti da Bruno alla loro radice di origine, a quella religione della rinuncia e dell’ozio che è il cristianesimo tutto. Questo, infatti, da San Paolo ai padri della Chiesa, ai teologi cattolici e a quelli protestanti, non ha fatto altro che svilire l’agire umano.

Per Bruno la decadenza dell’umanità sta nell’ideologia escatologica del cristianesimo, che proiettando la vera vita nel regno dei cieli, di fatto svilisce ed ostacola ogni impegno consapevole all’azione umana e alla pacifica convivenza civile.

Quella che Bruno auspica è una radicale renovatio, per la quale occorre un Uomo nuovo, svincolato dalle prospettive provvidenzialistico-escatologiche che lo vorrebbero nella santa asinità, con man gionte e’n ginocchion… aspettando da Dio la sua ventura – come scrive nella “Cabala del cavallo pegaseo”. Bruno vuole insomma l’uomo liberato dalla condizione d’inferiorità, di rassegnazione – croce di condanne ancestrali – da sopportare con gratitudine, nella speranza della vita celeste: “La qual ne done Dio dopo l’essequie” (“Cabala del cavallo pegaseo”).

A quali radici culturali allora appellarsi? Bruno cerca in qualche modo di riannodare le fila con una umanità e con una civiltà sopite: dei greci, dei romani, e ancora a ritroso… quella egizia, in cui ravvisa il primo nobile esempio di aggregazione sociale.

Ad una contemporaneità che non è portatrice di progresso civile, Bruno, alla stregua dei più grandi intellettuali del Rinascimento, contrappone idealmente gli antichi perché siano da modello, spinta propulsiva, perché, come aveva già scritto ne “La Cena delle Ceneri”, nel viver temperati, ne la medicina esperti, ne la contemplazione giudiziosi.

Novello Mercurio, si fa portatore di questo annuncio di rinnovamento, di illuminazione razionale per un’umanità, che finalmente viva in piena armonia con la totalità della natura. Quella armonia presente nella mitologia antica – in quella egizia innanzi tutto – prima che la si soppiantasse con il dio assoluto della separazione cielo-terra: “quel dio, come absoluto, non ha che far con noi (…). Da qua puoi inferire, come la sapienza de gli Egizii, la quale è persa, adorava gli crocodilli, le lacerte, li serpenti, le cipolle; non solamente la terra, la luna, il sole ed altri astri del cielo” (“Spaccio della bestia trionfante”). Ma i miti egizi rappresentano solo la metaforica espressione del legame uomo-natura, perché è la ragione, nel suo “eroico furore”, a dover comprendere l’essenza della natura, la sua unitarietà nel suo infinito divenire, di cui l’essere umano, che è parte integrante, deve acquisire consapevolezza per poter agire.

Bruno è del tutto consapevole che il suo scontro con il potere totalitario è impari. Verrà ucciso, lo presagisce e lo denuncia nei suoi scritti. Ma vuole anche, e con tutte le sue forze, che del suo pensiero rimanga traccia. Per questo non si sottomette alla Chiesa, perché significherebbe ritrattare, consentendo infine la manipolazione, il riadattamento della sua filosofia in funzione di quel potere che egli vuole abbattere. Non è che vuole diventare asino, come i tanti che vanno ad ingrossare la massa acquiescente rinunciando al pensare vivo e libero, rinunciando alla propria umanità, all’albero della conoscenza (de la vita). Ecco come Bruno descrive costoro ad esempio nella “Cabala”. “Fermaro i passo, piegaro e dismesero le braccia, chiusero gli occhi, bandiro ogni propria attenzione e studio, riprovaro qualsiasi uman pensiero, riniegaro ogni sentimento naturale, ed infine si tennero asini. (…) hanno inceppate le cinque dita di un’unghia, perché non potessero, come l’Adamo, stender le mani ed apprendere il frutto vietato de l’arbore della scienza, per cui venissero ad esser privi de l’arbore de la vita”.

Per questo, di fronte ai giudici dell’Inquisizione, a quei teologi che si arrogavano il diritto di asserire verità assolute e di schiacciare tutto quanto non vi si conformasse, Bruno sarà irremovibile sulle sue posizioni filosofiche. Per questo, di fronte al cardinal Bellarmino, a cui basterebbe infine una catechistica abiura, Bruno esige il riconoscimento della sua speculazione filosofica.

Tuttavia, quel potere che con le sofferenze e il rogo sperava di annientare l’uomo e il suo pensiero, è esso stesso che prova timore nel momento in cui decide di mandare Bruno al rogo. E per questo, forse alla fine, ha più paura di quanta ne possa avere il condannato: “Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego acipiam” (Forse avete più paura voi nel condannarmi, che io nel subire la condanna), dichiara Bruno al momento della sentenza, secondo la testimonianza di Kaspar Schopp.

Dunque, nonostante gli sforzi messi in atto da Santa Romana Chiesa perché anche il pensiero di Bruno si perdesse con le ceneri della sua persona e dei suoi libri; nonostante i reiterati anatemi contro quanti ne proferissero finanche solo il nome, la memoria di Bruno, non solo è rimasta viva, grazie allo studio della sua filosofia, ma è divenuta simbolo del diritto di pensare liberamente per ognuno di noi. Un diritto base di tutte le legislazioni democratiche, risultato delle lotte e delle conquiste del pensiero e dell’azione dei laici, che nella Storia hanno contribuito ad affermare libertà, giustizia, fratellanza (valori che sono a base delle rivoluzioni moderne).

Nel momento storico attuale, in cui sembra tornato un pensiero unico che si nutre di conformismo e mediocrità, la memoria di Bruno, “credente nella laicità della ragione” (secondo la felice definizione di Luigi Firpo) richiama ognuno di noi a spezzare il cerchio della verità predefinita, a liberarci dai vincoli, per essere soggetti attivi della nostra storia.

Il fanatismo della fede, oggi è drammaticamente presente nelle teocrazie islamiche, ma ha rigurgiti anche nel nostro “civile occidente”, quando si pretende che il singolo debbia adeguarsi ad un modello di morale, che si vorrebbe eterna e rivelata. Un modello precostituito, fideistico e dogmatico, che ha prodotto nella Storia le stragi di ebrei, omosessuali, donne (le streghe), liberi pensatori… gli eretici perseguitati e mandati a morte dall’intolleranza.

Giordano Bruno è stato ucciso perché non si conformava, perché metteva a nudo le radici dell’ideologia della sottomissione su cui si strutturava quel potere che lo dichiarò eretico. Ma eresia vuol dire scelta! È uscire, come affermava Bruno, dallo stato asinino. È coraggio di pensare e di agire per rompere le narcotizzanti gabbie del conformismo.

Scegliere significa essere padroni di se stessi. Significa diventare essere umani e non esserlo a priori; perché ognuno è ad immagine e somiglianza solo di se stesso per come crea se stesso, per come responsabilmente diviene, attraverso le sue azioni nell’unica vita biologica che ha a disposizione.

Bruno ci chiama a fondare e a sviluppare la civile convivenza democratica. Tutto questo oggi si chiama laicità: bene individuale e collettivo da tutelare e su cui vigilare ogni momento.

Oggi, nel nome di Giordano Bruno, siamo chiamati a contrastare la restaurazione che aleggia sul nostro Paese e che sta ripristinando per tanti versi la pericolosissima alleanza trono-altare.

Si pensi, ad esempio, ai vantaggi economici dati alla Chiesa di Roma; ai finanziamenti erogati dallo Stato alle sue scuole; all’immissione in ruolo degli insegnanti di religione cattolica nella scuola pubblica, che potranno anche insegnare materie diverse dall’insegnamento confessionale; alla “legge delega al Governo per la riforma della scuola” dove si auspica “il conseguimento di una formazione spirituale e morale, anche ispirata ai principi della Costituzione…”. Si pensi alle restrizioni imposte alla ricerca scientifica in nome del dogmatismo; alla vergogna della legge sulla fecondazione assistita, che vorrebbe rinserrare le donne in presunte essenze di vocazione alla maternità, e che sacralizzando l’embrione, vorrebbe rimettere in discussione il diritto-dovere a maternità e paternità responsabili.

Anche in questi casi la filosofia di Bruno ci può ancora una volta essere maestra: “… nessuna legge che non è ordinata alla prattica del convitto umano, deve essere accettata… non deve esser approvata, né accettata quella istituzione o legge che non apporta la utilità e commodità, che ne amena ad ottimo fine” (“Spaccio della bestia trionfante”).

Pertanto, come Giordano Bruno, che si definiva il “fastidito”, cerchiamo anche noi di provar fastidio per tutto quanto voglia rinserrarci nella passività dell’acquiescenza.

Maria Mantello

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