Circa un anno fa in Germania, Hatun Surucu, una ragazza turca di 
				23 anni è stata uccisa perché non voleva portare il velo. L’11 
				agosto, a Sarezzo in Val Trompia, è stata uccisa Hina Saleem, 21 
				anni, pachistana, “colpevole” di voler vivere da occidentale. Di 
				tante altre storie non sapremo mai, per paura, o vergogna, o 
				omertà. Storie di violenze sulle donne musulmane, immigrate, 
				sottomesse a maschi padroni, che giustificano il loro potere in 
				nome di dio. E non tollerano che le “loro” donne (mogli, 
				sorelle, figlie), contagiate dal peccaminoso spirito di libertà 
				si emancipino. E per questo le tengono segregate. Le picchiano. 
				Le sfigurano con l’acido. A volte con la complicità delle altre 
				donne della famiglia-clan.
				
				Ad assassinare Hina Saleem è stato suo padre: Mohammed, un 
				immigrato di 51 anni. Le ha tagliato la gola, mentre due zii la 
				tenevano ben ferma. Come si sgozza un agnello. Poi l’ha 
				seppellita nella nuda terra del giardino di casa, in direzione 
				della Mecca, secondo l’usanza musulmana.
				
				Hina voleva vivere come un’occidentale! Questa la sua “colpa”. E 
				per questo era stata già altre volte minacciata, punita, 
				picchiata. Ma aveva trovato il coraggio di denunciare le 
				violenze. Aveva lasciato la casa paterna. Quella casa, dove l’11 
				agosto non c’era nessun altra donna. Neppure la madre, Bushra 
				Begun da Gujrat, moglie di Mohammed Saleem, da cui ha avuto, 
				oltre a Hina, altri cinque figli. “Hina non era una buona 
				musulmana. Mio marito ha lavato un’onta per tutta la famiglia”, 
				avrebbe dichiarato la donna al suo rientro dal Pachistan.
				
				Ma poi, forse dopo lunghi colloqui-interrogatori, ha trovato il 
				coraggio di denunciare il coniuge per l’omicidio della figlia. 
				Questi era stato già arrestato il 14 agosto da una pattuglia dei 
				Carabinieri di Gardone Valtrompia. In lui solo la fanatica 
				soddisfazione di aver lavato col sangue il disonore procurato 
				dalla figlia. La “sciagurata” non solo portava la minigonna, ma 
				si era anche rifiutata di sposare chi diceva lui. Era andata 
				perfino a vivere con un giovane di Brescia di 33 anni.
				
				Hina, la “svergognata”, “la disubbidiente”, si era sottratta a 
				quel padre padrone, la cui mentalità, purtroppo non è isolata. 
				Basti ricordare, ad esempio, le sconcertanti affermazioni di 
				ragazze musulmane al ristorante pachistano “Tabac” di Brescia, 
				convinte che “le nozze di famiglia” sono un valore da 
				rispettare.
				
				Bene ha fatto la comunità pachistana in Italia a prendere le 
				distanze da tutto questo, sottolineando come la maggior parte 
				dei musulmani siano ben integrati e rispettino le leggi del 
				nostro Stato. Il caso di Hina oltre all’indignazione, aveva 
				infatti alimentato le polemiche contro la recente proposta 
				governativa di concedere la cittadinanza agli immigrati dopo 
				soli 5 anni.
				
				Il padre di Hina stava espletando le pratiche di cittadinanza. E 
				di questo nostro Stato laico non disdegna il diritto di 
				avvalersi della facoltà di non rispondere ai magistrati. Per 
				quanto riguarda le donne, è stato il loro grande Movimento 
				d’emancipazione a introdurre cambiamenti profondi nel costume e 
				nelle leggi, contribuendo in modo determinante ad affermare la 
				priorità del diritto degli individui ad autodeterminarsi, 
				realizzando se stessi anche al di fuori e contro le pretese 
				identitario del gruppo.
				
				Un motto del Movimento femminista è stato: “Io sono Mia”. 
				Oggi questo diritto è alla base dei Paesi civili! Vale per ogni 
				essere umano. È auspicabile che anche le donne musulmane lo 
				rivendichino con forza e guardino alle tante più o meno 
				sconosciute Hina, martiri della lotta per l’emancipazione.